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Vincitrice lettera d’oro 2018

Lettera a chi ha cambiato la mia storia

Caro nonno,
le parole che sto per scriverti sono sfacciate e terribili. Dovrei pronunciarle sottovoce nel buio di un confessionale, bramando un’assoluzione divina. Invece le rivolgo a te nella lettera d’amore più cruda che mai avresti potuto ricevere. L’atto di scrivere è una lucida ammissione di colpa che faccio a me stessa, ma è come se la gridassi in pubblica piazza senza alcun ritegno.
I ricordi più vividi che ho di te sono di quand’ero ragazzina. Mi rivedo in vigna con i cugini durante la vendemmia. Risento il timbro profondo della tua voce che – chissà perché – mi ricorda il suono delle onde che accarezzano una spiaggia rocciosa. Serbo anche l’immagine di te nell’orto che leghi i pomodori mentre intoni a mezza voce un vecchio canto piemontese. Hai le maniche della camicia a quadri arrotolate fino ai gomiti e la pelle delle tue braccia è così scura e grinzosa da ricordarmi il cuoio della consumata borsa da lavoro di papà. La nonna, figlia dell’elegante borghesia sabauda, ti rimproverava per questa tua ostentata noncuranza ma tu rifiutavi ogni lozione, affermando con solennità che la tua pelle ti aiutava a ricordare: “La vita è troppo ricca di esperienze e il cuore è troppo piccolo per conservarle. Gli alberi hanno i cerchi e io ho la mia pelle”.
Nell’album delle mie memorie più vivide è conservata l’immagine di un pomeriggio di fine settembre. Da lì a pochi giorni avrei cominciato il mio ultimo anno di liceo. Ricordo lo squillo del telefono mentre foderavo i libri di testo, la voce preoccupata di mamma che chiedeva spiegazioni e poi il breve viaggio in macchina teso e silenzioso. Te lo ricordi, nonno? È il giorno in cui sei inciampato mentre imbottigliavi il vino in cantina. I tuoi occhi verde scuro gridavano smarrimento perché la tua bocca storta non riusciva a farlo.
Quel pomeriggio ti abbiamo rialzato da terra ma è stato come se non avessi mai più smesso di cadere. Le tue figlie si sono fatte madri per te e come un tarlo implacabile qualcosa ha iniziato a scavare dentro di me. Più fuggivi via e più assorbivi con prepotenza i nostri pensieri e le nostre forze. La nonna, che con la sua innata discrezione se n’era già andata in punta di piedi nel giro di una notte, si era risparmiata la sofferenza di vederti gettato sul divano come una bambola rotta dallo sguardo fisso. Ebbene, è così che è cresciuto il mio risentimento: il tuo dolore condannava alla sofferenza e al sacrificio e costringeva a rimandare gite fuoriporta.
Con Marco avevo organizzato tutto da mesi, doveva essere la nostra fuga romantica tra la neve dopo un anno tormentato per troppe ragioni. Ma la sera prima della partenza ti sei aggravato e siamo stati costretti a rinunciare alla piccola evasione abruzzese: ho pianto lacrime di rabbia per la tua scelta di morire nel momento sbagliato e di vergogna per quei miei viscidi pensieri.
E poi, sorprendentemente, sei migliorato. Non di molto, ma quel tanto sufficiente per rimanere in vita ed è stato un pugno nello stomaco seguire in TV gli speciali della tragedia. Hai provato a morire per farmi vivere, mentre io ti odiavo perché mi avevi costretta ad annullare la prenotazione all’hotel Rigopiano…
Non ho mai avuto il coraggio di confessarti la mia grettezza, ma ora sono pronta a sigillare la lettera nella busta: la inserirò nella tua bara, nascosta tra la fodera interna e la tua gamba destra. Quando il via vai di parenti e amici sarà concluso, prenditi un po’ di tempo per leggerla con calma: so di non avere alcun diritto di chiederlo ma prova a perdonare la pochezza di una ragazza a cui hai cambiato la storia.

 

Sara Silva