Vincitrice lettera di un’adozione 2018
La porta si apre, ci alziamo dalla panca dove eravamo in attesa e il tuo viso serio ci accoglie. Solo un “accomodatevi” educato, ma freddo. Ci sediamo.
Cerchiamo riparo nel timido sorriso confortante della giudice onorario a fianco a te. L’invito a presentarci del giorno prima ci ha colto di sorpresa: una giudice ci vuole conoscere. Nient’altro.
Ed eccoci di fronte a te, giudice che ci volevi conoscere. Il silenzio dei primi istanti si fa pesante. Fuori il sole di un mezzogiorno di agosto splende, gli alberi del parco vicino luccicano immobili e incorniciano le finestre. Il tuo viso è duro. Gli occhi ci scrutano e – mi immagino – in un nanosecondo tu abbia capito tutto di noi.
Devi avere un intuito allenato per capire chi hai di fronte. I tuoi occhi sono quasi socchiusi. Forse sei nata così. E ancora immagino che da quelle fessure ne devi aver viste tante. Tante famiglie, tanta sofferenza, tante situazioni a cui mettere mano. Bimbi da togliere, bimbi da affidare, bimbi da spostare, bimbi da salvare, bimbi da decidere. Perché tu sei Giudice. Quanto male facciamo a questi bimbi, noi adulti. Stai ritta sulla poltrona, Giudice. Sposti gli occhi dal nostro fascicolo a noi. Cerco di decifrare il tuo sguardo, ma non riesco. Vinci tu. Tu sei abituata a quella scomoda poltrona, io no. Le mie elucubrazioni vengono interrotte dalle domande che iniziano. Rispondiamo meticolosamente e penso tu voglia “aggiornare” il nostro fascicolo, mi sembra verosimile. Dopotutto dal deposito della domanda di adozione sono passati 4 anni e mezzo. È un modo per non tenere la pratica impolverata nel cassetto. Si, mi conforta sapere che è così. Non può essere altrimenti, vero? Ma tu continui con le domande. Al di là delle risposte che stiamo dando, hai già capito come siamo. Mi sento nervosa sotto il tuo giudizio. Il nostro destino deve passare attraverso quegli occhi a fessura. E allora ci raccontiamo, il recentissimo trasloco, il mare che si vede dalle finestre, i progetti per il viaggio per festeggiare 10 anni di matrimonio. Guardo mio marito per stemperare il nervosismo. È bella la nostra storia, penso. Siamo sereni. Abbiamo un lavoro che ci piace, ci siamo trasferiti in un bel quartiere, in una bella casa. Siamo felici così e lo saremmo di più se potessimo condividere questa felicità con un bimbo, ma questo tu già lo sai, Giudice, non è necessario dirlo. Poi ci congedi, la mano forte stringe la nostra. Inaspettata arriva l’ultima domanda: cosa fate ora? Torniamo al lavoro, rispondiamo. Rimanete in zona, ribatti. Se ho bisogno, vi chiamo. Campanello d’allarme. Le gambe tremano. Pensieri in confusione. Perché? La porta si apre per farci uscire e seduta sulla panca dove eravamo noi, in attesa c’è un’altra coppia di aspiranti genitori. Allora capisco: o noi, o loro. Non riesco a guardarli. No, non può essere, cammino guardando per terra. Non ce la faccio a pensare.
Ci sediamo su una panchina del parco, il cellulare tra me e mio marito. Teneramente nervosi. E se fosse? No… non è possibile. Guardiamo la giostra che gira pigra sotto il sole, vicino a noi. Ci sono pochi bimbi sopra con qualche nonno che aspetta all’ombra la fine del giro. Guardiamo il cellulare. Ci guardiamo. Lo riguardiamo. Poi lo squillo. Sono le 12.43. Una voce ci chiede gentilmente di risalire. La coppia di prima non c’è più. La porta si apre. La giudice onorario ci fa accomodare e come in un deja vu, tu sei ancora li, ritta sulla tua poltrona con il fascicolo davanti. Mentre entro, cerco di interpretare il tuo sguardo, di intuire qualcosa, ma è enigmatico, non riesco a capire. Vinci tu, di nuovo. Ci annunci che il nostro viaggio dovrà essere rimandato. Poi qualcosa cambia: ti appoggi allo schienale della sedia, ti rilassi, un sorriso si estende inaspettato sul tuo volto. E continui: “…perché la vostra bimba vi sta aspettando”. Una bimba? Mi gira la testa. Tu sorridi. Una bambina? La nostra bambina! Un tuffo al cuore. Non riesco a dire nulla di intelligente, solo “ma noi? Ma è sicura?” Che domanda scema, mi dico. Certo che siamo noi! Guardo la giudice onorario, sorride pure lei. Forse capisce l’eccitazione e mi perdona. Sono diventata mamma. Siamo diventati genitori. Ti guardo e sei ancora sorridente.
Usciamo. Il mondo fuori è uguale a prima: il sole, gli alberi, la giostra, noi no. E la nostra storia da quel giorno è stata radicalmente rivoluzionata. All’improvviso.
Qualche tempo dopo mi confiderai che il tuo lavoro è duro quando devi separare, ma ti senti Dio quanto hai la possibilità di unire. E io perdono questo piccolo peccato veniale di superbia.
A te che sei arrivata dove nemmeno madre natura poteva, a te che hai un lavoro che ti concede raramente un sorriso, a te che sei stata il mio test di gravidanza positivo e la mia ostetrica. Semplicemente. Grazie.
Claudia Torello
