Edizione 2013
Lettera d’oro 2013
LETTERA DI SCUSE
di Delia Mazzocchi
Caro Lorenzo,
Non ti chiedo scusa, te lo imploro gridando, ma il tuo perdono non sarà sufficiente a liberarmi di questo peso.
Avevo aspettato per ore sotto il sole del tuo cortile, forse erano solo minuti, ma a me era sembrato un tempo interminabile. Poi erano scesi i ragazzi, avevano bisogno di un giocatore per equilibrare le squadre e mi avevano chiesto di unirmi. Io ero solo un bambino, era l’anno dei mondiali e l’Italia era arrivata in finale; hanno dovuto tirare a sorte per decidere chi facesse chi.
Non so quante volte la mamma mi abbia chiamato dal tuo balcone. Avevo segnato un gol e all’improvviso mi ero trovato dei nuovi amici. Il più grande mi aveva dato una pacca sulla spalla chiedendo come mi chiamassi. – Pietro si chiama! – aveva gridato. – Forte questo Pietro!
Quando alzai la testa la mamma era molto arrabbiata, combattuta tra lo sforzo di tenere la voce bassa e la voglia di urlarmi di salire. Aveva gli occhi lucidi e lo sguardo furioso.
Ci rimasero male, specie il tipo che mi aveva dato la pacca. Ha detto che ero una pappamolla che correva appena mamma chiamava. Ho fatto finta di non sentirla, è vero, e questa è la prima grossa colpa. Lo ammetto, Lorenzo, ho fatto finta. Poi lei ha alzato la voce e a quel punto sono salito.
Non è che non ho voluto abbracciarti, davvero Lorenzo, ma la stanza era buia, c’era odore di medicinali e tu eri annegato nelle lenzuola. Io ero trafelato, avevo il cuore che batteva forte e le gambe frenetiche per il gol appena segnato.
La mamma mi diede una spinta leggera alla schiena e disse qualcosa sul fatto che fossi il tuo migliore amico, ma io rimasi inchiodato sulla soglia della stanza.
Ed è di questo che ti chiedo perdono, Lorenzo, la verità sarà terribile: non ho avuto paura. Ecco l’ho detto. Non ho avuto paura neanche per un secondo: volevo tornare a giocare, mi aspettavano per continuare. Per i ragazzi del tuo condominio ero un piccolo Scirea e restare lì accanto a te, inerte, era insopportabile e quasi fastidioso.
E così lo chiesi: – Posso tornare a giocare?
Non vidi il tuo sguardo, ma quello di tua madre sì e anche quello della mia, che mi fulminò e disse: – sparisci!
La mamma mi tenne il muso per due giorni. Poi ci furono le telefonate e le lacrime.
Quella sera la tivù rimase spenta e l’Italia vinse i mondiali contro la Germania. Sentii l’urlo della città sulla rete di Tardelli e poi la festa e le trombe e i clacson delle auto. Quando mi avvicinai alla finestra la mamma disse che prima o poi mi avrebbe spiegato qualcosa sull’amicizia.
Non ci fu bisogno della sua spiegazione, Lorenzo. Mi portarono al funerale perché ero grande abbastanza. E lì compresi. Quando vidi la bara, compresi. Quando capii che tu eri lì dentro e non avresti più giocato a pallone né fatto i compiti e merenda con me, compresi.
Non sono mai più riuscito a vedere un mondiale come si deve, Lorenzo. A ogni gol mi torna in mente quell’urlo della città sulla rete di Tardelli e penso al mio grido di perdono per quell’abbraccio negato.
Pietro
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