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2019 | Lettera alla mia città

Simona Denise Deiana

Lettera finalista nella categoria Lettera alla mia città.

Cara Milano,
io e te ci conosciamo da sempre. È qui da te che sono nato e cresciuto, all’Ortica. Ormai ho quasi 60 anni. Non sono giovane ma neanche vecchio. Ma non vado bene per nessuno, questo è certo. Quand’ero piccolo ti amavo alla follia. Mi sembrava bellissimo vivere qui, essere milanese. Mi vantavo anche di esserlo. Se andavo in vacanza al mare, quando conoscevo altri bambini, dicevo subito: “Sono di Milano”. Allora per me tu eri il meglio. Poi crescendo ho avuto sempre più difficoltà a stare qui con te.
Non avevo un gran lavoro, appena mi mantenevo. Ma non avevo nemmeno grandi aspettative, del resto non avevo avuto voglia di studiare, ero un semplice operaio. Un uomo tranquillo, forse per qualcuno senza ambizione. Vivevo con poco, stavo ancora con i miei in una vecchia casa di ringhiera.

Poi è cambiato tutto: mio padre è morto. In poco tempo se n’è andato a Musocco e con lui la vita d’un tempo. Sono rimasto con mia madre. Pochi soldi e tanti problemi. Da te nessun sostegno. Mia madre faceva fatica a fare la spesa: tolti i soldi dell’affitto e delle bollette rimaneva quasi niente. Io poi sono stato buttato in cassaintegrazione. Bella roba. Non valevo più niente. E se n’è accorta anche la persona che avevo accanto. Uno senza lavoro, senza soldi, senza prospettive, chi lo vuole? Nessuno. Manco tu infatti. Ti ho chiesto aiuto, un sostegno, niente. Mi sono umiliato anche. La cosa peggiore. Ma non è vero, la cosa peggiore è quando è morta pure mamma. Al Pio Albergo Trivulzio dov’era finita. E allora sì che son rimasto solo davvero. Io e i guai. Io e i soldi che non c’erano. C’ho messo poco a diventare uno di quelli che prima dicevo: “Come si fa a finire così?”. Eccomi qui. Mi cacciano di casa, perché non posso pagarla. Prima mi vendo la Panda. Poi tutto quello che avevo dei miei. Ma non basta mica. Chi mi ospita non può farlo a lungo e mi dice: “Guarda lo so, io ti capisco, ma non posso più tenerti qui. Chiedi al Comune”. E io a te ho chiesto, alla mia città.
Ma pare che per te non sono abbastanza povero, nemmeno quando mi sento uno schifo, quando mi faccio schifo. Allora dormo in Ortles, con i poveracci. Con quelli come me. Che non sono stati furbi, non sono adatti a te che di ‘sti tempi hai solo bella gente in giro per le tue strade. Finisco a dormire nei quartieri del centro, tra i ricchi, ma sui marciapiedi di viale Piave, sulle panchine al Parco Sempione, nei portoni. Non ho più niente. E non parlo di soldi, quelli non li ho mai avuti. Ma di dignità, di rispetto per se stessi.

Non esisto per nessuno. Sono ancora un milanese. Sono ancora un cittadino. Ma forse non sono più un uomo.

Piero

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