2015 | Lettera di pancia
Silvia Marchesi
Lettera finalista nella categoria Lettera di pancia.
Sara, se la mia pancia potesse, prenderebbe la penna e scriverebbe una lettera alla tua. Siccome tutta sta indipendenza non ce l’ha, la lettera alla tua pancia la scrivo io.
Ho sempre pensato che se l’anima si cela da qualche parte nel corpo, quella parte sia la pancia. Alla scuola di Anestesia mi prendevano tutti in giro per questo amore incondizionato. Agli anestesisti piacciono il cuore, il cervello, i polmoni. A me la pancia. La nostra essenza è lì che si nasconde, si concentra e si trasforma in bruciori di stomaco, negli intestini irritabili, nei crampi d’amore.
Un mese fa, sentendomi dire così, mi hai chiesto se allora tu avessi un po’ di anima in meno, visto che hai un pezzo di pancia in meno.
Ci ho pensato. Non so risponderti, ma a me sembra che, adesso, tu abbia anima in più, anima da vendere. La tua pancia si è adattata all’assenza di una sua parte e ha ricominciato a funzionare alla perfezione. Non sembra un miracolo? Mi stupisco sempre dei successi della medicina così come delle sconfitte, delle morti, delle disabilità.
Adesso te lo posso dire che quando siamo entrate insieme in sala operatoria, tu vestita da paziente e io vestita da dottore, avevo paura. Ti ho accompagnata finchè ti sei addormentata e poi sono tornata da mamma e papà. Dovevo infondere fiducia agli altri, ma dentro tremavo. Quando passi tanto tempo in sala operatoria sai che le cose possono andare storte anche quando meno te l’aspetti, anche se il paziente è giovane.
Ti ricordi che ti sei addormentata parlando delle cassatine siciliane? Mi è sembrato un bel pensiero, qualcosa di frivolo e profumato, che va direttamente nella pancia. Avevo paura che non avresti più potuto mangiarle le cassatine. Sono uscita dalla sala e ho fatto dieci, forse venti respiri. Sono sempre così pessimista, al contrario di te.
Ho riguardato quella foto in cui siamo ad Amsterdam e tu hai tra le mani quel cartello che ci portavamo in giro per la città con scritto: Marchesi Family. In quella foto siamo uguali, lo dici sempre anche tu. Sembriamo quasi la stessa persona, non fosse che tu sei alta venti centimetri in più e hai ereditato quel maledetto gene che ti ha fatto finire sotto i ferri così giovane. Il giorno in cui abbiamo ricevuto i risultati del test tu eri a scuola. Dal medico ci siamo andati solo io e Diego. Ti escludevamo a priori, come se la possibilità che quel gene l’avessi ereditato tu non esistesse. Eri troppo piccola, nessuno di noi voleva anche solo immaginare potesse essere così. Il medico disse: “Purtroppo il problema riguarda proprio la persona che non c’è”. È stato paziente con le nostre lacrime. Quel giorno è iniziato tutto. Dovevi decidere tu quando farti operare. Eri appena maggiorenne e avevi una bomba a orologeria nella pancia. Mi sembrava di sentirla ticchettare quando ti stavo vicino.
Non ne volevi sapere. Ti ricordi quando sono venuta a trovarti a Bellaria? Eravamo sedute su un lettino in spiaggia. Io ti dicevo che non potevi più aspettare, che eri un’incosciente a voler attendere oltre. Sono stata dura, lo so.
Piangevi e mi dicesti: “Ho paura”. Risposi solo: “Io ci sono”.
Ma capii. Eri così giovane, forte, invincibile. Come si può pensare di essere malati quando si è così potenti? Quel giorno sulla spiaggia decidesti di operarti alla fine dell’estate.
Se la mia pancia potesse davvero scrivere una lettera alla tua le direbbe che è orgogliosa di lei e che ora la tua pancia è più forte che mai, ricolma di anima e con cento-mille-diecimila cassatine siciliane davanti a sé. Nell’attesa che la mia pancia impari a scrivere, ti voglio bene.
Tua sorella
