2018 | Lettera a chi ha cambiato la mia storia
Silvana Maria Baldini
Lettera finalista nella categoria Lettera a tema libero.
Lampedusa, confusa… visione confusa, medusa… ecco, sì medusa, può essere che sia una medusa il bianco che vedo comparire dall’azzurro che mi vuole sul fondo. Sono su questo barcone da non so più quanti giorni e ormai senza speranza di arrivare, l’acqua è finita e gli scafisti chissà dove sono. Ci hanno abbandonato subito. Un motoscafo di altura si è avvicinato alla barca e i due sudanesi a cui avevamo consegnato i nessuni nostri averi sono passati su quello e ci hanno lasciato a noi stessi. Grida. Disperazione. Inutili.
Tornare indietro? E dov’è “indietro”? darsi il turno al timone? Ma chi mai di questa umanità sa comandare una barca? E verso quale direzione poi? L’orizzonte è tutto uguale. Non ci resta che galleggiare su questa bonaccia e sperare di incrociare un peschereccio, una motovedetta, una presenza qualsiasi che ci raccolga o che almeno ci dica: di lì… Non succede. Dove siamo è impossibile dire. Stanotte, inaspettatamente, ha piovuto e lo scroscio bevuto a mezz’aria ci ha rimandato la fine. Si muore così disidratati. È già successo a un neonato su questa barca, la madre l’ha infagottato in uno straccio e l’ha gettato in mare, un plof indifferente nell’acqua. E io hi guardato -sì, sappia chi legge, ho guardato- non ho distolto lo sguardo perché la pietà è un’invenzione e i cadaveri nell’acqua galleggiano e io quanto a cadaveri potrei dare lezione. Ne ho visti centinaia, migliaia, anzi forse non ho visto nient’altro in vent’anni di vita, i primi quando vivevo nel Mali e la cisterna dell’acqua serviva ancora per l’orto e non da fossa comune. Eppure nasce da laggiù il mio viaggio di ora, dal bordo di un fosso su cui sedevo in compagnia di un uomo che mi insegnava la botanica e gli innesti dei meli. Avrei voluto assomigliarli e ci sarei riuscito se ne avessi avuto il tempo. Invece sono arrivati quelli in tuta mimetica e hanno ucciso tutti. Amédé, l’uomo dei meli, non è morto. Ho sentito che è emigrato in Europa. Anch’io sono in viaggio per l’Europa. Qui su questa specie di zattera tutti hanno qualcuno da raggiungere. Il vecchio seduto qua a fianco la comunità curda a Berlino, la ragazzina cabila il marito. Il padre l’ha data a un nipote emigrato a Stoccarda. Il matrimonio l’hanno fatto guardandosi in un computer poi i parenti si sono tassati e l’hanno accompagnata sul molo. A destinazione non ci arriverà perché morirà prima. O forse è già morta. E lo stesso capiterà a tutti prima di sera. E io? Io sono l’unico che non ha niente e nessuno da raggiungere da nessuna parte. Sono l’unico che va dietro solo a una scia di parole. Riprendo a scrivere. Mi ero addormentato. O svenuto, non so. A scrivere ho imparato alla scuola a mai avrei pensato di volerlo fare di mio. Marabutti del Nord dell’Atlante conservano i libri antichi e io quando facevo il mercenario in non so più quale guerra diedi fuoco a una delle loro biblioteche. Il capo tribù si mise a piangere e mi lanciò la maledizione per lui più terribile. Che la memoria dentro di me si spegnesse in continuazione -mi urlò dietro- e che il ricordo di quello che avevo fatto non mi lasciasse più in pace. Ma non ce n’era bisogno. Ho sempre ricordato tutto compresi gli spasmi di agonia di tutti quelli che ho fatto morire. Non so cosa sia il raccapriccio. Dopo che il villaggio è stato distrutto mi sono messo in viaggio ma invece che verso la Francia ho preso la strada contraria, o forse la strada ha preso me. I Tuareg dicono che tanto più una meta è importante tanto più il percorso per raggiungerla è contorto, può essere che sia così, e che le coste di Lampedusa non siano distanti, ma ormai le mie forze sono allo stremo.
È evidente che la maledizione dell’uomo dei libri ha colpito. Laddove delle atrocità commesse sugli altri ho conservato il ricordo, di quanto riguarda me conservo solo una labile traccia. È per questo che mi sono sforzato di scrivere questa specie di lettera per testimoniare che anch’io sono esistito e che in un mondo diverso forse la mia vita poteva cambiare. Comunque, ormai anche questo è passato: il mozzicone di matita è esaurito e il bianco del foglio mi accieca. Dietro, nella scia bianca e verde dell’elica, c’è un delfino che gioca.
Il mio nome non conta, non so più che giorno sia, me se fossi sopravvissuto avrei voluto chiamarmi come lui. Amédé
