2019 | Lettera alla mia città
Santa Elvira Marzo
Lettera finalista nella categoria Lettera alla mia città.
“Amara patria, non avrai il mio sangue!”. Così diceva mio padre. Non gli ho mai chiesto il significato. Pensavo fosse una delle sue solite battute all’inglese. Era stato prigioniero dei tedeschi, in guerra, forse per questo era ancora amareggiato.
Io invece, non faccio umorismo verso quella che non so più se considerare solo come il posto dove sono nata e cresciuta, dove ho studiato, ho avuto i primi innamoramenti, quella che usavo ma che non pensavo di amare, o se invece questa città poggiata sullo Stretto è qualcosa di più.
Ho cominciato ad amarti dopo, quando ne sono partita. Quando me ne sono venuta via, non sapevo che sarebbe stato per tanto tempo, non ti ho salutato come di dovere, non ho pianto come avrei fatto dopo, tutte le volte che ti avrei lasciata. Si partiva sempre di sera quando si andava al Nord, all’imbrunire, si vedevano sfilare i profili delle tue montagne e le luci che ti cingevano mentre si faceva buio. Mi sentivo strappata come un’erba divelta dal tuo terreno e me ne stavo con lo sguardo impietrito verso il tuo rimpicciolirti, il tuo annebbiarti tra le lacrime che mi calavano. Come il treno che veniva tagliato a pezzi, il mio cuore si sbriciolava dentro. E muta, composta diventavo quando un nuovo orizzonte si profilava. Allora ti voltavo le spalle sfinita e navigavo verso una interminabile striscia di terra che mi portava a una diversa vita cui ritornavo affranta, né mi rinfrancavano le estranee luci e una lunga notte che acquietava i sospiri. Non sapevo se fossi tu il mio rientro o quell’altra, per tanto tempo non ho capito quale fosse la mia patria, da apolide disperata e, ancora adesso, deposta la disperazione, mi sembra di non saperlo.
Una disgraziata volta ho impiegato trenta ore per raggiungerti, seduta nel corridoio affollato di un treno del Sud, con la testa un po’ ciondolante, un po’ appoggiata alle braccia che cingevano la mia valigia, nelle peggiori condizioni mai trovate prima e dopo. Neanche allora mi sei stata grata! Continuavo, impotente, a vedermi alternata tra un impetuoso nostalgico desiderio, un lento degradante soffermarmi e un rassegnato sdegnato ritorno. Mi sentivo evaporare come un’acqua, svanire come un’ombra. Non appartenevo più a niente, a nessuno, io non lo volevo, ma tu mi facevi estranea, intrusa, ingombrante e inutile. Immobile con la tua indifferenza, mi facevi nemica, non mi volevi, mi cacciavi. A vicenda ci sentivamo tradite, a mano a mano ci allontanavamo l’una dall’altra, tu con i tuoi abitanti, io sola. Eppure ti amavo, più di quanto ti avevo, mi sfuggivi mentre ti cercavo. Andavo cercando le mie case di un tempo, le mie varie scuole, i miei luoghi, le mie persone, ormai poche, cercavo radici che non sentivo, legami che non trovavo, ricordi che inseguivo. Tu continuavi a respingermi quando ti venivo a far visita, una volta sì e una no, sperando sempre ti dimenticassi di non volermi, ma non accadeva. Io invece ti voglio ancora, ti voglio quando dico a tutti di dove sono, quando ti nomino con convinzione anche se so che non ci apparteniamo, non più. Ti odio perché mi hai sempre rifiutato, anche quando sarei voluta stare con te, una volta morta, ti odio perché mi hai tolto fino agli ultimi desideri, perché non mi pensi come lo faccio io, mi hai abbandonata, non voluta, non chiamata.
Amo un’altra adesso, si chiama Milano e non è come te, ma mi ha adottata, dopo avermi accolta, abbracciata, dopo avermi dato tutto quello che mi mancava, che non mi avevi dato tu, ma ti perdono perché sarai sempre la mia dannata patria che non avrà né il mio sangue né le mie ossa.
