2014 | Lettera a un sogno
Paola Bellei
Lettera finalista nella categoria Lettera a tema libero.
Caro Uccio,
come tutte le mattine, apro gli occhi e metto il naso fuori dalle lenzuola. Fa freddo ed è buio. Poi un rumore forte mi fa trasalire. Sei tu. Sei solo tu che russi. Lentamente tiro fuori un braccio e avvicino la sveglia: le 6.30.
È buio, fa freddo e tu russi.
Il tuo respiro rumoroso è regolare, quasi armonico, dopo tanti anni conosco ormai ogni singola vibrazione. Ancora cinque minuti. Vorrei dormire ancora cinque minuti. Poi mi alzerò preparerò la colazione e correrò in ufficio. In quell’ufficio pieno di pratiche infinite, di dirigenti indifferenti e di gente che chiede sempre e spesso pretende. Da oltre vent’anni, da quando ho buttato alle ortiche la mia laurea perché non pensavo fosse importante. L’importante era altro. E io avevo scelto altro. In questo periodo così difficile per tutti, non dovrei lo so, tu me lo ricordi sempre, eppure mi capita di lamentarmi del mio lavoro. A volte rifletto su quello che ho lasciato, su come sarebbe stata la mia vita se avessi fatto scelte diverse, ma in fondo al cuore so che, se potessi tornare indietro, non cambierei nulla. Hai un fremito e il tuo russare ora muta, diventa più ritmico. Sei così buffo quando russi al mattino!
Veramente lo fai sempre, anche di notte. All’improvviso. Ed emetti dei suoni così assurdi, goffi.
Poi delle volte, mentre dormi, ridi. E il tuo sorridere fa ridere anche me. E così rido e mi agito. Il letto sobbalza, ti infastidisce e brontoli. L’altro giorno a colazione, con tono serio hai detto che non eri riuscito a riposare, perché avevo russato tutta la notte. Io ho russato? Ti ho chiesto meravigliata e tu, trattenendo a stento un sorriso, hai detto che avremmo dovuto registrarci per capire chi fosse il più rumoroso. Se penso però, al tempo trascorso, agli anni vissuti insieme, alla felicità spesso incontrata, ma anche al dolore, ai litigi, seppur rari, avverto come un fremito, un timore.
Forse è l’ansia per il futuro incerto delle nostre ragazze, quasi adulte e che tu ti ostini a chiamare ancora le bambine. O forse semplicemente è colpa dei miei cinquanta anni e della menopausa che incombe lì, dietro la porta.
Tu, ingegnere cubico, sei sempre stato la razionalità, la logica, la coerenza, io invece, l’irrazionalità, il sogno, la fantasia. Hai sempre sdrammatizzato, mentre io trovavo inquietudini ovunque.
Ti conosco talmente bene che non ho mai pensato che potessi, dopo tanti anni, essere ancora in grado di sorprendermi. Mi hai lasciato quella dolcissima frase scritta su un foglio stropicciato, che non volevi neppure darmi. Calcoli matematici e progettazione certo, per te è pane quotidiano, ma scrivere non è mai stato il tuo forte e buttar giù su di un foglio bianco quelle poche parole, immagino sia stato difficile. Il tuo biglietto è nel cassetto e ogni tanto rileggerlo mi emoziona.
Ora mi alzo. Giuro. Ma non ne ho voglia, perché stamattina alzarsi, è veramente difficile. Vorrei tanto restare qui, immobile nel letto, con te.
Vorrei che fosse un giorno diverso. Senza scadenze, senza orari e tabelle di marcia da rispettare, senza ansie, senza pensieri. Ora il tuo respiro è più lento, quasi impercettibile, tra qualche istante ti sveglierai. La luce che filtra dalle persiane illumina la tua fronte: è più ampia e piena di rughe, non me ne ero mai accorta. Guardo la sveglia: le 7 meno dieci. È veramente tardi. Ora mi alzo, ora abbandono il tepore di questo letto. Sento il tuo respiro leggero, come leggera vorrei che fosse questa giornata che sta per iniziare. Apri gli occhi, mi guardi e le rughe del tuo viso si dipanano.
“Buongiorno” mi dici sorridendo.
“Buongiorno. Ora mi alzo”.
“Copriti che fa freddo” mi dici mentre sollevo le lenzuola.
La luce ha preso il posto del buio.
Oggi sarà una giornata diversa. Come sempre. Come tutte le mattine. Insieme a te.
