2015 | Lettera di pancia
Mauro Barbetti
Lettera finalista nella categoria Lettera a tema libero.
Ill.mo Maestro, ho ricevuto quest’oggi il suo spartito e ciò che stringo tra le mani è il coronamento di un sogno: segna la nascita di un capolavoro e la mia rinascita personale. Ci sono vite che scorrono quasi immobili, incanalate in un flusso continuo, senza grandi sussulti. Poi ci sono vite come la mia, che incontrano il giorno del giudizio già prima dell’inevitabile fine, vite segnate dal fato che le divide in un prima e in un poi. Solo pochi mesi prima avevo debuttato con successo alla Grosser Musikvereinsaal di Vienna e la musica era tutto per me, speravo diventasse la mia vita a dispetto di un padre che mi voleva coinvolto negli affari di famiglia. Tutto mi sembrava semplice e naturale, allora: il suono che si sviluppava dall’agilità delle mani, che si faceva cupo o cristallino nelle varie ottave della tastiera, che si sfumava leggero o ruggiva alla diversa pressione delle mie dita. E come appariva bella e promettente la vita viennese di allora, con la sua eleganza, il suo splendore e l’amicizia delle personalità più in vista di quegli anni! Ma quel mondo nascondeva già in sè la crisi e la spinta verso la sua dissoluzione. Quando iniziò la guerra, mi arruolai come molti altri per senso dell’onore e amor di patria. Come sottufficiale mi affidarono una piccola unità sul fronte orientale in quel primo, tragico anno di conflitto, quando le nostre truppe furono costrette a una precipitosa ritirata dalla Galizia. Fu durante il ripiegamento che venni colpito al braccio destro: un dolore lancinante che mi fece svenire. Il risveglio fu in un ospedale da campo russo. Il dolore c’era ancora, non il braccio destro. A seguito di ciò, ho scoperto che sono varie le sedi dove si depositano i ricordi. Certo la principale è la mente, e la mia mente ha rivissuto spesso quel giorno, con tutti i se e i ma che tormentano il pensiero, così come ricorderà sempre i giorni in Siberia, dove fummo portati come prigionieri. Un carcere con poche sbarre e poche porte, bastava già la neve e le migliaia di chilometri da casa a scoraggiare qualsiasi tentativo di fuga. Eppure in quella desolazione, in quella solitudine e silenzio, misi le basi per la mia vita futura. Chiesi e ottenni un vecchio e scordato pianoforte verticale; ai russi dovevo sembrare matto, un monco che vuole suonare, che vuole continuare la sua esistenza come se nulla fosse successo. E in quella lotta conobbi e dovetti combattere un altro tipo di memoria, quella del mio arto. Il dolore prima di tutto, che arrivava come un bruciore o una scossa elettrica, là dove il mio braccio non c’era più, poiché lui lo riviveva il trauma, il colpo improvviso e brutale ed era un dolore che mi assaliva senza ragione e senza preavviso come a ricordarmi chi ero veramente. E accanto al dolore la memoria del movimento, il moncone che immaginava di spostarsi, che voleva mettere la mano destra proprio lì dove andrebbe, a riempire il suono, a renderlo perfetto, giusto, normale. Ma la destra non c’era più e anche l’orecchio aveva una sua memoria. Sentiva che mancava qualcosa, che non era più come prima, che se la musica continuava a vivere, bisognava però ripensare la tecnica e lo spartito. Ho così ricominciato dagli esercizi che facevo da bambino, quelli per differenziare la destra dalla sinistra, per differenziare accordi da melodia. Conoscevo poi la versione di Godowski per mano sinistra dello Studio Rivoluzionario di Chopin. Iniziai a studiarla febbrilmente, come pure i sei studi di Saint Saens. La mia brama era inesauribile. Una volta tornato dalla prigionia, chiesi a Josef Labor, mio vecchio maestro ormai quasi
cieco, di creare altri pezzi da inserire così nel mio repertorio, lui poteva capire cos’è essere menomati. Ma io volevo ancora di più, il mio sogno era un vero e proprio concerto tutto per me e la mia unica mano. Così mi sono rivolto a Lei, Maestro, e ora, dopo aver letto il suo spartito, sento di nuovo fremiti e tremori che assalgono la mano, una mano che ha riconosciuto con certezza l’immortalità e la grandiosità di questa musica. Una musica che è e sarà tutta la mia vita. E questa volta, quella che freme nella voglia di suonare, è la mia mano sinistra. Suo Paul Wittgenstein
