2018 | Lettera a chi ha cambiato la mia storia
Marta Abbà
Lettera finalista nella categoria Lettera a chi ha cambiato la mia storia.
Cara Anna,
non ti chiedo perché, anche se viene spontaneo unirsi al coro di chi si aggancia a questo interrogativo per non tuffarsi in un abisso di autoanalisi che la tua morte suggerisce. Una morte voluta, chissà poi quanto, una morte che ti dà in pasto a molti di quei “signoretti degli stereotipi” a cui piace associare al voler essere bella e magra la malattia di cui abbiamo sofferto. Parlo al passato perché tu non ci sei più e io ci ho divorziato qualche anno fa. Ti sei gettata da un ponte, lasciando che la forza di gravità agisse sul tuo corpo che hai sempre utilizzato per raccontare tacitamente qualcosa che noi non abbiamo capito.
Ricordo i tuoi tondi occhi blu, unica cosa tonda del tuo essere al mondo. Mi scrutavi timidamente, mi avevano sussurrato che mi vedevi come esempio e che trovavi nella mia esperienza un’ispirazione a stare meglio. Sono convinta che proiettassi in me il desiderio di diventare più disinvolta e sana, ti ho lasciato fare pur non sentendomi un esempio per nessuno. Ti ho lasciata fare proprio come quando regali una cianfrusaglia che stai per buttare ad un amico che la trova meravigliosa e pensi sorridendo: “contento lui”…
Cara Anna, la tua morte mi porta a scriverti ciò che non ti ho mai voluto dire per timore di turbare il tuo procedere tentennante e timoroso. Mi porta a diventare per me stessa quell’esempio di persona che tu mi hai proiettato addosso. Una combattente radiosa e generosa. Ho scoperto di esserlo, ho trovato la forza di esserlo quando la forza di gravità aveva già interrotto la tua vita. Non riesco a immaginare la scena, non la voglio immaginare e soprattutto non la voglio associare alla Anna che ho sempre incrociato di sfuggita: biondina, azzurra negli occhi, molto sofferente e con delle lunghe gambe pronte a portarti lontano. Niente ali, purtroppo, per sfidare la forza di gravità. Niente ali, purtroppo, per permetterti di volare alto.
Io ti ricordo e sempre ti ricorderò seduta ad uno sgabello del bar della clinica per disturbi alimentari in cui tu eri appena entrata e io appena uscita. Bella e sola, triste e in minigonna. Fumavi con gesti da donna, da quella donna che non sei più diventata e mai diventerai. Ci siamo guardate, ci siamo salutate fuggevolmente. Solo il giorno seguente ho saputo “la roba dell’esempio” e non ci ho badato poi molto, preferendo sfuggire alla responsabilità che oggi invece mi prendo appieno. Quella di mostrare e dimostrare con la semplice vita di tutti i giorni che dall’anoressia si può guarire, senza grandi proclami, ma gettandosi nel pieno invece che nel vuoto, gettandosi in un susseguirsi di giornate imprevedibili con in mano la sola certezza di volerle vivere nel migliore dei modi, innamorandosi della propria imperfezione e coltivandola con amore ogni giorno.
Ti abbraccio da lontano, da dove la forza di gravità vale meno di quella di volontà, cara Anna, ti abbraccio.
Marta
