2005 | Lettera al mio nemico
Mario Pettoello
Lettera vincitrice nella categoria Lettera a tema libero.
Caro Paolo,
sono Alvise, il fratello che non hai potuto amare. Me ne sono andato che avevi solo un anno, nostra madre ne aveva quaranta e dopo due anni moriva. Di me ti avranno detto che ho voluto seguire la mia passione, la musica, e una conferma l’avrai forse trovata in quel pianoforte che un tempo stava nella sala da pranzo. È lo strumento sul quale ho imparato ad amare la musica, ma non me ne sono andato per amore della musica.
Avevo vent’anni, quando giunse in casa una voce cattiva, ma era una voce vera e non seppi negare. Era dal tempo dell’adolescenza che io conoscevo la mia diversità, ma gli altri non lo sapevano. Dopo, cercai di vivere con discrezione; mi sentivo osservato, ma la mia era una prudenza inutile. Il papà continuava a guardarmi come fossi di un altro mondo, gli altri fratelli mi evitavano; solo con la mamma nulla era cambiato, ma quando era sola io la sentivo piangere. Forse i motivi erano altri, ma io pensavo che fosse solo per me. Per questo decisi di andarmene. A casa sono tornato una sola volta, per i suoi funerali e tu avevi tre anni. In quell’occasione mi sembrava che tutti gli occhi fossero puntati su di me. La causa della sua morte non potevo che essere stato io. Non nostra sorella che se ne era andata con un uomo sposato; è il destino, avevano detto. Non nostro padre, che l’aveva trascurata per inseguire chissà quali affari; è per il bene della famiglia sentivo dire. La vera causa potevo essere solo io, che l’avevo sempre amata, che non l’avevo mai fatta piangere fino a quel giorno, quando in casa era giunta una voce. Dopo di allora, sono stato in molti posti, ho fatto i lavori più umili e quando sono approdato a Roma ho avuto fortuna. Sapevo suonare, cantare, ballare, avevo già composto della musica; ho anche messo su una band. Ho anche amato, ma è un amore che mi ha segnato. Si chiamava Dario; è morto da qualche anno, ma sapevo da tempo, e anche lui sapeva, che il suo destino era segnato. Ricordo ancora i suoi occhi prima della fine; mi ha guardato e ha parlato, con fatica, ma ha parlato. Voleva dirmi che sul referto il medico avrebbe scritto tumore al fegato. La gente pensa che noi si muoia solo per l’Aids e ne parla con disprezzo, come se la nostra morte fosse un castigo, invece noi siamo come tutti gli altri; anche noi moriamo per il mal di cuore, per una cirrosi, per un tumore. La gente crede di sapere tutto, ma non sa cosa sia veramente la nostra vita. In questa grande città, all’inizio, ho potuto vivere la mia diversità, nell’anonimato. Poi, però, uno sa, l’altro racconta, alcuni ti riconoscono, alla fine in tanti parlano di te e non ti guardano più come prima. Sentivo dire: “È gente viziosa”. Il mio vizio era amare un altro uomo invece di una donna. Con discrezione; non perché eravamo due uomini, ma perché il vero amore è sempre discreto, non vuole esibirsi, non vuole ferire chi non sa o non può amare. Sono stato felice? Non erano tempi per gente come me; forse non lo sono nemmeno ora, forse non lo saranno mai. Di una coppia, quando lui o lei muoiono ancora giovani, di quello che resta si usa dire: “Potrà farsi ancora una vita”. Ma per me non è stato così, non può essere così; farsi ancora una vita, vuol dire essere felici, mentre quelli come me possono solo amare. Ora, sai tutto di me; il motivo per cui me ne sono andato e perché non ero presente ai funerali di papà. Anche questa volta tutti gli occhi sarebbero stati puntati su di me, perché in molti avrebbero pensato che il mio comportamento era una delle cause della sua morte. Conosci la mia storia, conosci le ragioni del silenzio e della finzione che in famiglia hanno segnato la mia vita, ma ora sono io che non so nulla di te. Non so se vorrai conoscere questo fratello; se potrai farti carico della malizia che ora riconoscerai nel sorriso di chi ti chiederà: “… e Alvise come sta?” Se coglierai la sincerità delle mie parole; se vorrai accettarmi, che è poi il solo, difficile, modo per amare veramente.
Tuo fratello Alvise
