2015 | Lettera di pancia
Marina Zinzani
Lettera finalista nella categoria Lettera a tema libero.
Caro Luca,
è notte, tu non sei ancora tornato. Giro da ore, qui in casa. La notte è lunga, non sai quanto può essere lunga per un padre. Per te sono solo ore passate là fuori, a divertirti con i tuoi amici, a bere. Forse a fare altro.
Ho trovato delle pasticche, nelle tue tasche. Sapevo che fumavi l’erba, ti ho anche detto cosa ne pensavo. Ma ora sei arrivato ad altro. Devo dirtelo, trovare le parole anche questa volta per dirti ciò che penso, quello che è bene e male. Questo spetta ai genitori, ad un padre, insegnare quello che è buono e cattivo. Ma io volevo essere diverso. Ho sempre detestato chi fa la morale, ho spesso considerato il moralismo qualcosa di stantio, di così lontano dai sentimenti delle persone.
Volevo essere diverso. Diverso da mio padre, che mi diceva che le cose andavano fatte in un modo, e non bisognava contraddirlo. Diverso da mia madre, che univa la sua dolcezza alla preoccupazione, ma soprattutto per come andavo a scuola, se mi ero coperto, se mi piaceva il suo cibo. Io volevo essere un padre diverso. Ricordo che fin da piccolo ti portavo alle mostre, ai musei, volevo insegnarti che un quadro, un’opera d’arte può parlare, ti lascia qualcosa, è un piccolo seme, che assieme ad altri semi ti plasma, ti fa sentire migliore, più attento alle cose belle. Pensavo che nutrirsi di cose belle salvasse da ciò che ti avrebbe riservato la vita: una scuola con i tuoi giorni decisi da altri, un lavoro poi dove la tua vita sarebbe stata inquadrata, sottomessa. Un lavoro incerto, un avvenire incerto. Sapevo queste cose, sapevo che le ricette che mi avevano dato i miei genitori non erano più attuali, che il futuro è un’incognita, soprattutto oggi. Per questo volevo educarti alla bellezza, anche alla lettura. Insieme abbiamo parlato di autori, di registi, che ci avevano colpito. Anni fa. E io sapevo che avevo fatto la cosa giusta. Gli interessi, l’educazione al bello, una passione, sarebbero serviti negli anni difficili, quando tu avresti dovuto camminare con le tue gambe.
Credevo di averti educato al bello, ed ho trovato delle pasticche. Pasticche che portano in un tunnel di orrore, di bruttezza. I tuoi capelli sono diventati brutti, il tuo taglio ripugnante, il tuo piercing al naso osceno, il tuo linguaggio scurrile e aggressivo sembra quello di certe periferie degradate.
E io, cosa dovrei dirti ora? Non bastavano i nostri problemi, qui in casa. La cassa integrazione, il lavoro che se ne va. Anche tu. E io a chiedermi dove ho sbagliato.
Avrei dovuto avere il polso più duro, fermare sul nascere certe inclinazioni pericolose, capire che con le droghe leggere si può cadere in ben altre droghe. Questo mi chiedo, se ho sbagliato tutto con te, Luca. E non so più cosa fare, come aiutarti. Anche perché nelle parole che dici, nel tuo comportamento, non c’è certo l’espressione di uno che ha bisogno di aiuto, consideri me uno semplicemente fuori dal tempo.
Mi dispiace, Luca, vederti così. Vorrei aiutarti. Vorrei tornare indietro ad un paio d’anni, quando io e te andavamo a giocare a pallone, eravamo come due amici, tu mi prendevi in giro per i miei capelli che cominciavano a cadere.
Aiutami, ti prego, a superare questa notte. Non voglio perderti.
Papà
