2019 | Lettera alla mia città
Luca Piana
Lettera finalista nella categoria Lettera alla mia città.
Genova, 9 ottobre 2018
Cara Zena,
mia fedele compagna di avventure, rifugio naturale dei pensieri più profondi, complice insostituibile capace di soddisfare ogni mio desiderio. Capricci, vizi e speranze. Quante volte avresti potuto lasciarmi in preda ad un destino infingardo, crudele, ed illusorio, che ha deciso di abbandonarmi proprio nel momento del bisogno. Per un attimo ho temuto che potessi smettere di proteggermi come fa una madre con il proprio figlio. Ed invece è proprio nelle difficoltà che mi sono accorto della spalla solida, in grado di darmi forza e di accogliere le mie lacrime nei periodi di sconforto, su cui posso contare. Mi hai sostenuto durante un quarto d’ora di celebrità che non avrei mai voluto vivere, con buona pace di Andy Warhol, e sei stata la mia ancora di salvezza nel momento in cui mi sono guardato alle spalle e non ho trovato nessuno. La tua presenza, discreta e mai oppressiva, mi ha riportato a galla durante la burrasca.
Chi avrebbe mai immaginato che prima o poi saresti riuscita a fare breccia nel cuore di pietra di un lombardo? A furia di fare la spola tra le due città mi sono ritrovato orfano della Madonnina e piacevolmente sedotto dal panorama ammaliante della Superba. Eppure per mesi e mesi ho odiato l’idea di abbandonare i profumi della mia terra. Sei stata il simbolo di ordini e doveri, obblighi e vincoli che spettano a tutti coloro che si arruolano in marina. Quel tragitto percorso per anni con spensieratezza durante il periodo adolescenziale si trasformò ben presto nello spartiacque tra la famiglia e la servitù militare. Mi sono ritrovato a piangere sul cuscino e a trascorrere giornate a letto con la speranza che il tempo potesse scorrere più in fretta possibile. Per qualche secondo della mia vita, invece, dev’essersi pure fermato. Ogni volta che chiudo gli occhi ripenso agli anni passati con indosso una divisa che mi faceva sentire invincibile, anche se è nella acque di Nervi che sono sempre andato a curare le mie ferite.
Ti respiro in ogni istante, mentre il mio sguardo si perde all’orizzonte, soggiogato dalla piacevole melodia della risacca. Un blues rilassante che emerge dal fondale marino e si contrappone al contorno appariscente di un cielo stellato dal ritmo pop, riflesso nel vibrante rock ‘n roll del moto ondoso del Mar Ligure. È nel silenzio delle notti d’autunno che ti lasci guardare da tutti coloro che hanno più pensieri che ore di sonno, speranzosi di un domani migliore. Sei la terra madre di mio figlio Cristoforo che, proprio come Colombo, ha lasciato l’Italia in cerca di fortuna. Ripenso a tutte le volte in cui siamo inciampati, mia cara Genova. In ogni tragedia che ti ha colpito ho perso una parte di me. Compresa quella migliore, incarnata dalla compagna di sempre, colei che non ha mai staccato la sua mano dalla mia. Nelle settimane di sonno profondo è stata lei il mio unico legame con la vita. Mi sono sentito privato del perno fondamentale di tutte le mie certezze, crollate insieme ad un ponte e sepolte sotto le macerie di quel viadotto autostradale utilizzato ogni sera per tornare a casa. Ho trascorso secondi che sono diventati minuti, ore e giornate in coda su quei pochi metri sospesi sopra il Polcevera. Ci sono passato anche all’alba di quel maledetto ottobre di cinque anni fa, quando mi fu chiesto di dismettere la divisa da militare per indossare i panni di angelo del fango. Sono stato sulla bocca di tutti e nel cuore di pochi nel momento in cui il Bisagno mi ha colpito con forza, tramortendomi, fino a spegnermi a poco a poco. Sento ancora sulla pelle i brividi di quella sera, i giorni trascorsi in coma e gli incubi che non mi fanno dormire la notte. Dall’alto di zona San Martino, dove il personale medico mi segue come se fossi uno di famiglia, vedo i carruggi del centro storico e tutta la costa marittima fino alla Corsica. Amo ancora perdermi nei viottoli che ormai conosco come le mie tasche. E come casa. Ci siamo inseguiti spesso come due amanti inconsapevoli. Tu la bella che si lascia ammirare da tutti ed io, povero ingenuo, convinto di essere il padrone del mondo mentre ti osservo dall’albero maestro della Amerigo Vespucci. Ma è nelle piccole cose che ho ritrovato la mia dimensione. Ecco perché, mia cara Genova, tu sei la mia città, e sono certo che domani mattina, quando finalmente riaprirò gli occhi, splenderà il sole su di noi.
(dedicata a) L.T.
