2019 | Lettera alla mia città
Ilaria Maroni
Lettera finalista nella categoria Lettera alla mia città.
Cara New York,
Ti guardo dal finestrino dell’autobus che prendo ogni sera quando torno a casa dopo una lunghissima giornata di lavoro. Osservo la costellazione di grattacieli, strade e ponti illuminati, il brulichio delle auto bloccate nel traffico dell’ora di punta, i volti esausti degli altri passeggeri in viaggio. Le loro facce trasmettono stanchezza: la tariffa che riscuoti ai tuoi residenti è alta, sono sempre di fretta e non hanno mai tempo libero per gli amici o per lo svago. Chiudo gli occhi per recuperare le forze e ascolto le decine di lingue straniere che da quelle bocche si mescolano nell’aria in una babele di suoni ed emozioni. Non mi importa se è sdolcinato da ammettere, ma sai che mi sono innamorata di te a prima vista? Avevo diciannove anni e un cellulare senza fotocamera che sembrava allungare le distanze oltreoceano invece di restringerle. Sono sbarcata dritta dritta nel tuo cuore, a Times Square, e in quel momento mi hai spalancato le braccia. Non mi hai chiesto da dove venissi, cosa facessi o chi fossi. In una città dove ogni persona è stata straniera, queste domande perdono rilevanza. Tu mi hai semplicemente accolto, come da secoli accogli i naufraghi che trovano riparo nel tuo porto.
Non appartieni a nessuno e nessuno appartiene a te, ma sei l’amante alla quale possiamo rivolgerci per avere un po’ di conforto. Non ci sono orari di chiusura, apertura, riposo, ferie, giorni della settimana o mesi dell’anno perché tu sei sempre lì, pronta a ricevere chiunque voglia realizzare i propri sogni.
Prima che me ne andassi, in Italia si parlava soltanto di ius soli, culturae, seconde generazioni, bambini senza cittadinanza, extracomunitari, sbarchi. I media cavalcavano l’onda della rabbia e della disperazione per connotare le notizie con la nazionalità delle persone coinvolte. Ecco invece cosa ho imparato da te, New York: colpevoli o innocenti, vittime o carnefici, bianchi, neri, ispanici, asiatici, maschi, femmine, apparteniamo tutti al genere umano senza distinzioni. A distanza di anni dal giorno in cui mi hai adottato, oggi ho deciso di scriverti questa lettera per ringraziarti. Grazie per avermi insegnato che l’età o la foto non dovrebbero essere richiesti in un curriculum professionale. Grazie per avermi spiegato che la fatica, mese dopo mese, paga con i risultati; che un contatto non significa una raccomandazione e che chi va avanti lo ha meritato per l’impegno, non per gli agganci.
Grazie per avermi convinto che sul posto di lavoro non è ammissibile ascoltare commenti omofobi, sessisti o razzisti e che chi li pronuncia – e non se ne pente neppure – può e deve essere licenziato. Grazie per avermi mostrato che un figlio di immigrati ha la possibilità di diventare sindaco, governatore, senatore, avvocato, imprenditore, miliardario.
Grazie per avermi fatto scoprire il mondo all’interno dei tuoi confini, perché il Queens è il quartiere più multietnico al mondo, perché a Brooklyn ho mangiato hummus migliore che in Israele, perché camminando a Chinatown ho immaginato di viaggiare a Pechino.
Ti ringrazio perché, da che ti conosco, custodisco preziosamente queste lezioni e, quando rientrerò in Italia, interpreterò il mondo in maniera diversa, pretendendo maggiore rispetto per me stessa e per gli altri. E se poi mi sentirò sola, spaesata, fuori luogo, inadeguata o diversa, saprò che volgendo lo sguardo ad occidente, potrò ritrovare il tuo rifugio, dove mi aspettano otto milioni di vicini.
I love you, New York.
