2016 | Lettera a un artista
Giulia Gioia
Lettera finalista nella categoria Lettera alla vita.
Voglio festeggiare questo giorno come se fosse un inno alla tua vita, caro papà. Mamma dice sempre che il 20 gennaio 2014 ha cambiato le nostre esistenze per sempre e penso abbia ragione: sfoglio il diario di quell’anno e trovo la mia scrittura fino a quella mattina; dopo le pagine sono bianche, completamente vuote. Altri parlano di miracolo e forse dicono bene. Però – anche a costo di sembrare egoista – io mi sento essenzialmente fortunata. Fortunata per averti ancora qui con me perché, vedi, ho ancora bisogno della tua presenza e dei tuoi insegnamenti. Perché – pur crescendo – si resta sempre un po’ bambini e si ha la convinzione che il mondo, da qualche parte, lo abbiano inventato i genitori. E quindi sì, mi reputo fortunata se posso ancora star seduta in un treno con te a raccontarti della mia giornata e di tutto quello che mi passa per la testa, mentre mangiamo tarallini. Fortunata perché posso ancora chiederti d’accompagnarmi a fare le analisi del sangue perché, a cinque come a venticinque anni, non ho più timore solo se con me ci sei tu. Per questo mi sento in colpa quelle volte in cui mi spazientisco e ti tratto male: dopo cinque minuti penso a come sarebbe se non potessi più mandarti al diavolo e allora mi vien voglia di venir di là, abbracciarti e chiederti scusa mille volte. Dirti che adoro anche la tua ansia: l’avevo scritto anche su quel post-it che tenevo incollato alla bacheca della mia stanza a Roma, ricordi? Recitava così: “Spesso il male di vivere ho incontrato… era mio padre che mi domandava: ma ce la fai a preparare un esame in 15 giorni?”. Te le avevo lette per telefono quelle parole e tu eri subito scoppiato a ridere.Ricordi pochissimo di quei giorni – di quel 20 gennaio 2014 – e forse meglio così. A me invece restano addosso, ancora adesso, il terrore di perderti; la paura di non arrivare in tempo ed il senso di colpa per non essere stata accanto a te: mai Roma m’era sembrata così tanto lontana da casa come in quegli istanti.Ripenso spesso al momento in cui, finalmente, ero con te: tu così piccolo in quel letto e quella terapia intensiva talmente grande, eppure così asfittica. Le tue parole le ricordo ancora: “Pensavo che morivo e l’unica cosa che desideravo era rivedere te e tuo fratello”. Io ero scoppiata a piangere e t’avevo circondato in un abbraccio che sapeva di poliestere verde di quel camice che avevo infilato di corsa, di sale delle mie lacrime e delle tue, e di tutto l’amore del mondo.In quei giorni, hai lottato costantemente ed hai sorpreso tutti quanti: ti aggrappavi alla vita con quella forza che ti contraddistingue e che molto appartiene anche a me.Ora stai davvero benone: hai perso così tanti chili e ti sei rimesso in forma tanto da sembrare un ragazzino. Sei sempre lo stesso, che riempie le nostre vite di risate e sorrisi. Anche se i medici ci hanno spiegato che alcuni tuoi neuroni hanno preso una lunga vacanza: spesso dimentichi i giorni oppure confondi d’aver detto una cosa a me, alla mamma o a qualcun altro. Noi ci scherziamo su perché è l’unico modo per esorcizzare la morte e farle una linguaccia. Adesso trascorro i nostri giorni a dirti ti voglio bene più spesso e ad abbracciarti stretto, per non lasciarti andare più. Ringrazio di continuo perché tu ci sei ancora e allora tutto – nella mia vita – trova immediatamente senso.
La tua Giulietta
