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2015 | Lettera di pancia

Giulia Gioia

Lettera finalista nella categoria Lettera di pancia.

Caro P.,
ho sempre frammenti di frasi che mi galleggiano in testa: cose che vorrei dirti, altre che non ti ho mai detto. Mi sovvengono sempre di notte, un secondo prima d’addormentarmi e dopo averti pensato per ore interminabili: al mattino, poi, tutto sembra rimosso.
Adesso provo a fregare il sonno: racimolo un pezzo di cuore e lo disegno in parole. Non può che essere una lettera d’addio questa, ma come si fa a dire addio quando si vuole bene? Come si fa a dire addio a te? C’è un modo, un libretto delle istruzioni, un qualcosa che insegni a lasciar andare?
Io ci provo, ma tu non mi passi mai. Perché adesso è ancora il tempo in cui penso che mi saresti piaciuto sempre, anche se ci fossimo incrociati dieci anni fa: quindicenni brufolosi e informi, quando si usavano i pantaloni a vita bassa e a zampa e voi ragazzi portavate i capelli sparati e col gel. Mi saresti piaciuto anche ai tempi delle elementari. Ho un’idea di te bambino, col grembiule: il più bravo della classe; quando sei caduto e ti s’è rotto il dente, ma lasciando il sorriso invariato. Sì, penso proprio che mi saresti piaciuto sempre: anche sbarbato, anche ragazzino. Anche quando non c’ero nei tuoi occhi.
Mi ritrovo a fissare le nostre foto: fotogrammi di istanti e distanti; vita andata e che non ritorna.
Mi guardo e guardo te: gli abbracci.
Come fanno i corpi ad unirsi così tanto e a diventare una cosa sola? A scambiarsi le ossa e i respiri e pure la pelle? Quando si supera quella labile soglia che poi non si sa di chi le mani e di chi i capelli o i nasi: sono io? sei tu? siamo noi? “Un abbraccio per ritrovarsi interi”.
Quando si cessa d’essere di se stessi e si diventa di un’altra persona? Questa storia dell’appartenersi m’ha sempre sorpresa, stupita, lasciata perplessa.
E allora mi domando quando: quando abbiamo iniziato a scambiarci porzioni di pelle. Quando parte del tuo odore ha iniziato a restarmi impigliato tra i capelli. Quando ti sei ritrovato ad andare a giocare a calcio coi tuoi amici e a sapere di me in ogni poro.
Quando è iniziato?
Forse dalla prima volta che mi hai abbracciata, alla fermata della metro a Cavour.
Quando abbiamo un po’ iniziato a diventare noi?
Fa strano domandarselo adesso: ora che siamo passati. Adesso che tanti chilometri e facce e vite ci separano; adesso che non potrò più prendere un autobus o cambiare metro a Bologna per raggiungerti oppure incrociarti, casualmente, per le scale di Lettere, col cuore che va sempre più veloce e non lo tengo.
So dove restano i giorni che abbiamo avuto: nelle stanze dei ricordi, sigillate per non soffrire. Ma vorrei sapere dove vanno a finire tutti i giorni che non viviamo per mancanza di coraggio. Dove rimangono gli amori che magari, se forse, chissà. Dove se ne vanno tutte le promesse che non manteniamo? C’è uno spazio per tutte le cose che potevano essere e che non sono state?
Mi chiedo se passeremo del tutto, un giorno, e mi rispondo che sì, certo che sì: diventeremo ricordo labile, lontano. E questo è un pensiero che mi fa diventare subito triste.
Però poi basta guardarmi allo specchio: il neo, che se ne sta lì – mezzo deformato – al centro della schiena nuda. Penso che sarà sempre il marchio a ricordarmi il quando: quando abbiam fatto l’amore per la prima volta.
E allora penso che non c’è niente da fare, che tanto tu mi resterai scritto sulla pelle.

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