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2019 | Lettera alla mia città

Francesca Fornari

Lettera finalista nella categoria Lettera di un'adozione.

Roma, 30 Luglio 2019

Cari figli adottivi,
scoprii di essere una di voi solo all’età di ventun anni nonostante quella sensazione di estraneità ce l’ avessi da sempre, sulla pelle e nel cuore.
Sapete quale fu il paradosso? Che mentre il mio senso di identità deflagrava in mille pezzi insieme alla terra che mi sosteneva, io da quel trauma non pensai di proteggere me bensì mia madre adottiva, che ovviamente già lo sapeva. Lo feci non rivelandole che lo avevo scoperto perché la conoscevo come una donna fragile, con l’“esaurimento nervoso”. Lei non me lo aveva detto e io volevo proteggere il suo segreto. Nel frattempo cercai mia madre naturale, ma la legge di allora diceva che quel nome non potevo averlo. Era stata una ragazza madre della Sicilia degli anni Settanta. Guardai avanti.

Dopo nove anni ebbi un figlio anche io. Mi rispecchiai in quegli occhi puri, i primi che mi somigliavano. Rivelai finalmente a mia madre che sapevo, abbandonando le paure che il dono di  quella maternità stava spazzando via. Fu liberatorio, catartico. La verità lo è sempre. Noi adottivi portiamo spesso carichi non nostri. Abbiamo riempito le vite vuote e sofferenti di chi non riusciva ad essere genitore, siamo i tasselli mancanti che finalmente danno gioia, da noi ci si aspetta quella. Impariamo a mettere a tacere ciò che sarebbe scomodo sentire e ancor più manifestare. Impariamo a compiacere e a prenderci cura di chi ci ha salvato, come un dovere che ci viene insegnato in modo non verbale, quasi subliminale. Eppure l’amore non si piega al dovere, l’amore vive di libertà, è gratuito, incondizionato. Passarono altri anni, mi ammalai. Cercai ancora mia madre naturale, e stavolta la legge fu aggirata dai “gravissimi e comprovati motivi di salute”: avevo un cancro. Era necessario sapere se ci fosse o meno familiarità, per decidere in merito all’intervento da fare. La trovarono, mi fece avere le notizie mediche sull’anamnesi della sua famiglia: stavano tutti bene. Le chiesero se voleva incontrarmi, rispose di no. Mia madre mi rifiutò la seconda volta, sapendo che avevo un cancro.
Guardai avanti ancora. Il cancro mi lasciò vivere, i miei genitori adottivi morirono, mi separai da mio marito. Ora sono sola come in quella culla prima di essere presa, in un vuoto affettivo fatto di ombre senza confini. Ma ho imparato a sentirmi parte di una famiglia più grande, in cui non c’è distinzione tra adottati e non. Una famiglia che si chiama umanità e che comprende e perdona anche chi non ci vuole.

Cari figli dell’umanità, il nostro legame non sta nello status di adottati ma nel riconoscere il dolore che appartiene a tutti e che prende innumerevoli forme. Che si mascheri da malattia, lutto, depressione, solitudine, abbandono di un figlio … è solo l’ombra che non scegliamo, ce l’abbiamo tutti.  Ci hanno insegnato a combatterla, a fuggire, non ci hanno detto che è solo abbracciandola che possiamo finalmente sentire quel senso di appartenenza che cerchiamo. Cari figli della luce, se scegliamo di amare i vuoti che sentiamo, anziché tentare di colmarli, ci accorgeremo che la felicità è una scelta e che è sempre possibile farla.

Con vero amore,

Francesca

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