2019 | Lettera alla mia città
Elisa Alimenti
Lettera finalista nella categoria Lettera a tema libero.
Stamattina ti ho pensato. L’autobus correva per la via tortuosa della valle, immersa nella nebbia. Oltre il finestrino vedevo solo l’asfalto sconnesso della strada e il confine fragile del guardrail, ultimo baluardo del mondo materiale, oltre il quale ogni cosa scompariva inghiottita da un mare bianco e lattescente. La musica mi risuonava in testa. Chissà se, in quel momento, la stavi ascoltando anche tu. Ho immaginato le ultime note di “Bohemian Rhapsody” dei Queen fluire attraverso il filo bianco degli auricolari e azionare piccoli sensori nervosi nelle mie orecchie, per poi essere misteriosamente decodificate dai neuroni. C’era qualcosa di dolce e sofferente in quell’ultimo “nothing really matters to me”, e ho pensato le note scivolare sul mare di nebbia, naufraghi meravigliosi e disperati e aggrappati l’un l’altro nell’attimo estremo, prima di affondare nel pallore indistinto dell’ignoto.
Sai, a volte penso che la musica sia un ponte, a metà tra il regime dittatoriale della matematica e quello anarchico dell’arte, un connubio multiforme tra la solida certezza dei numeri e la perfetta imperfezione dei colori. Un ponte ampio e incrollabile che ha l’odore rassicurante della mia vecchia scuola di musica, la forza di un temporale estivo e la gioia timida del primo amore. All’inizio pensavo che fosse fatta solo di note, accidenti e pause più o meno lunghe, nel mezzo, che faticavo sempre a contare. Poi, lentamente, ho iniziato a trovarla nei luoghi, negli oggetti, nelle persone. Allora l’anziano edificio della Filarmonica è diventato un pezzo jazz, intriso del sentore di ogni strumento e del leggero strato di trepidazione che precede i concerti; la mia stanza si è riempita delle note di “Space Oddity” di David Bowie, che mi hanno portato con loro oltre la Luna; la casa del mare si è trasformata in un pezzo country e risuonerà per sempre nella mia mente delle note di una vecchia chitarra un po’ scordata.
E poi ci sei tu, una musica a cui ancora non so dare un nome. Ed è strano, perché è la più bella che abbia mai sentito. È nell’asimmetria del colore dei tuoi occhi, in quel tuo modo buffo di arricciare le labbra, quando sorridi solo con lo sguardo e socchiudi appena le palpebre. Sembra classica e metal al tempo stesso, sa di timidezza e di coraggio, e risuona dei suoni di mille strumenti. Sa dell’accettazione che non mi sono mai concessa, di consolazione nella legge ingiusta del caso, delle mattine d’estate quando ti svegli presto e la luce del primo sole filtra attraverso le persiane. E ogni cosa di te è musica, ed è bello il tuo esserne così ingenuamente inconsapevole. Il cielo sopra la distesa di nebbia era grigio, e una luminosità diffusa permeava la valle. Ho fatto scorrere di nuovo gli occhi sul mare bianco, che aveva inghiottito i naufraghi e adesso pareva calmo, placido e ignaro del suo delitto.
A te e al nome che ho appena dato alla tua musica, e che ho paura di pronunciare.
Elisa
