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2015 | Lettera di pancia

Cesare Marchesini

Lettera finalista nella categoria Lettera di pancia.

Il treno se ne va lento ma con progressione decisa, inarrestabile. Resto qui, sul Marciapiede 17. Inclino la testa indietro, chiudo gli occhi: Cristo Santo cosa starai pensando di me. Forse ho esagerato, ti ho imbarazzata, ho rovinato questa preziosa amicizia appena nata, ti ho persa. Quando ci siamo salutati l’abbraccio era vero, forte e dolce insieme, non ne sei scappata. Però quello che mi hai detto… e come mi hai guardato severa mentre andavi via. Ho… paura.

Sto qui, sul Marciapiede 17 di una stazione semi deserta resa surreale da questa strana luce bianca-azzurra. Qui, immobile, sul Marciapiede 17. A fare che? Mi dico “Datti una mossa, vai a casa”. Mi sembra di avere 10 chili di peso attaccati ad ogni piede, come se la forza di gravità su questo marciapiede fosse più alta e volesse impedirmi di andare via da qui. Cerco di fare piccoli passi. Non ci riesco. Marciapiede 17.
Che giornata oggi. Siamo andati in giro per la città, abbiamo ascoltato musica insieme, guardato qualche video in rete, abbiamo letto di noi, le tue poesie, i miei racconti, tu davi qualcosa a me e io ricambiavo in continuazione, senza soluzione di continuità, come una partita a tennis dove non cade mai la palla, dove nessuno vuole vincere ma si gioca per il puro piacere di giocare. Abbiamo parlato, parlato tanto, anche delle nostre debolezze quasi senza pudore e ci siamo accettati per come siamo. Ma i silenzi sono stati importanti forse più delle parole dette. Sono stupito.
Non è stata l’usuale condivisione tra due diverse entità che si incontrano e scambiano qualcosa dove però ognuna resta un’entità unica, sola al mondo. È stato diverso. Quando tu mi dici come vedi, senti, provi qualcosa, bella o brutta che sia, io non condivido o comprendo, ma saltando immediatamente tutti i filtri,sento, provo quello che provi tu. La mia entità sa di che parli. Quando anch’io ti rendo partecipe di qualcosa di mio mi dici delle cose dalle quali capisco che stai vedendo dentro di me meglio di quanto riesco a fare io stesso. Sono confuso, un po’ spaventato. Lontani fuori, così vicini dentro. Non so com, cosa fare. Che si abbia cinque anni o ottanta quando affronti una nuova esperienza nella vita la scelta che fai può essere giusta o sbagliata. Chissà perché quando sei così coinvolto fai sempre le cose sbagliate. Come spiegarti qui, adesso, in pochi attimi prima che tu vada, questa sensazione di unicità che non so spiegare nemmeno a me stesso? Vedendo in te lo specchio di me vorrei avere anche una tua conferma, vorrei farti stare bene, consolarti, farti sentire compresa, protetta, darti affetto e non sto parlando di sesso e tu lo sai. Così, in un lampo, riassumo tutto in TRE sole parole. Troppe. I tuoi occhi mi hanno detto che ho sbagliato. Troppo presto, troppo azzardato, troppa fretta. Ma, dimmi, quanti passaggi abbiamo saltato oggi? Quanti?? È stato tutto così naturale, semplice, elegante, ci siamo vissuti come se ci conoscessimo da sempre ed è la seconda volta che ci vediamo. Raggiungo a fatica una delle scale mobili che mi porterà via da qui.
Benedico Jesse Wilford Reno, l’inventore della scala mobile. Ne sono certo: senza questa scala mobile non sarei mai riuscito a staccarmi dal Marciapiede 17.
Marciapiede 17, un posto un attimo prima totalmente privo di significato assurto improvvisamente a ruolo di protagonista carico di sensazioni, emozioni, memorie.
Marciapiede 17. Vado a casa.

21 Aprile 2015-09-01
cara Lucia ti scrivo questa oggi, dopo tanti mesi dal nostro incontro e dal tuo silenzio. Non so se così combinerò un altro guaio, ma non so come altro cercare di spiegarti quelle TRE parole che non ho saputo trattenere, dirti il vuoto che mi dà l’assenza della tua amicizia e dirti che mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero tanto. Sai, in realtà sono ancora lì, sul Marciapiede 17. Non mi decido ad andare via, adesso… aspetto. Se arrivi al Marciapiede 18 va bene lo stesso.
Rodolfo

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