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2015 | Lettera di pancia

Alessia Mosca

Lettera finalista nella categoria Lettera di pancia.

Grazie per la serata.
Che inizio scontato, eh? Ma che ci posso fare se ho il vizio delle buone maniere?
La forma, la forma prima di tutto. Mai di troppo, mai sguaiata, mai spontanea. Sempre attenta, controllata, irreprensibile. E allora, grazie per la serata.
Certo, se fossi stata un po’ meno a modo, te l’avrei detto che quel soffritto andava trattato con più cuore: la fiamma si abbassa, la cipolla, cullata nell’olio, deve dorarsi lentamente, dolcemente, senza fretta. E che quei poveri spaghetti chissà come si sono sentiti bistrattati, a bollire così a lungo, a cedere tutto il loro vigore a quell’acqua troppo salata. E forse ti avrei anche detto che il barolo no, il barolo in frigo non ci deve stare; il frigo non lo deve proprio vedere. E che la panna, se si chiama montata, non è per questioni di troppa autostima, ma perché con le fruste bisogna darci dentro.
Ma tant’è.
Se anche fossi stata più avvezza a lasciare libere le redini, anche per un attimo solo, e dirti davvero quello che penso, anzi quello che sento lì, lontano dalla testa, tra il petto e lo stomaco, se anche fossi stata capace di parlare di pancia, lasciando da parte etichetta e formalismi una volta tanto, avrei finito per dirti che non c’è pasta più buona di quella scotta da un uomo che si distrae a guardarti mentre affetta e sminuzza, pure a rischio di perderci qualche falange. Che non c’è vino migliore di quello scelto con cura alla ricerca dell’accoppiata perfetta, da un uomo che poi finisce per riporlo nel posto sbagliato, perché in un attimo, preso com’è dall’impresa di prepararmi la cena, si perde a rovistare tra sportelli e cassetti, manco avesse appena fatto irruzione in casa di estranei come uno scassinatore maldestro. Che davanti a una torta alle fragole, neppure l’ultimo dei miei pensieri si sogna di soffermarsi sulla panna scarsamente montata, mentre il mio chef-per- questa-notte appoggia delicatamente due cucchiaini sull’unico piatto che ci divide.
Già.
E invece chissà che ho fatto e detto per tutta la sera? Avrò fatto quel sorriso da scema che viene fuori tutte le volte che non so cosa dire? O meglio, tutte le volte che cosa dire lo saprei, ma poi la testa mi fa: “Shhh, questo tienitelo per un’altra occasione”? avrò avuto quello sguardo vago a metà tra i tuoi occhi e le piastrelle sullo sfondo, perché per timore di perdermi nell’azzurro dei primi, finisco per preferire la fredda prevedibilità delle seconde?
Chissà…
Io intanto ti scrivo. Non si usa più, lo so, ma c’era qualcosa che da ieri mi è rimasta lì… sullo stomaco. Non la cena, no. Più una voglia, uno sfizio, o meglio un bisogno. Quello di lasciar spazio alla pancia, per una volta, senza gli schemi della testa e senza l’affanno del petto. Per dirti quanto provo, arrossendo un po’, pure davanti a questo foglio di carta. Per dirti che non sai quanto vorrei che la prossima fosse già ora. Per chiederti se ti va che questa prima cena insieme finisca per confondersi, un giorno, tra le mille e mille che l’avranno seguita. Grazie per la serata, quindi.

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